Re Lear, da Le Storie di William Shakespeare di Leon Garfield, Parte 5 – traduzione di Germana Maciocci

Anche il conte di Gloucester, nel frattempo, era venuto a sapere per lettera dell’imminente arrivo delle truppe francesi, e, vile quale egli era, aveva nascosto la notizia sia al duca che alla duchessa di Cornovaglia. La vita del vecchio conte, come quella del regno intero, era ormai in rovina. Edgar, il suo primogenito, era stato accusato di tradimento; fuggendo, diventando un ricercato. Il messaggero del re era ai ceppi fuori dalla porta del suo stesso castello; e il conte non era ormai neanche più padrone a casa sua. Ovunque si girasse, vedeva i servitori armati del duca; ovunque andasse, si ritrovava a dover affrontare il malcontento del duca e della duchessa, iniziando a sentirsi non meno di un intruso. Gli avevano sottratto anche l’ultima sua consolazione, il suo fedele figlio Edmund, il quale passava più tempo ormai con il duca e la duchessa, che con suo padre, il conte.

Finché all’improvviso, simile a una tempesta a cavallo, arrivò il re! Con i bianchi capelli e la bianca, folta barba scompigliata, a circondare il volto arrossato, come un sole in inverno, egli chiese di poter parlare con il duca di Cornovaglia e sua moglie, i quali avevano osato mettere ai ceppi il suo messaggero. Pieno di angoscia, il conte corse a portare il comando del re ai suoi importanti ospiti;e ancora più angosciato ritornò con la loro fredda risposta. Il re lo fissò stupito.

“Si rifiutano di parlarmi! Sono indisposti! Sono stanchi perché hanno viaggiato tutta la notte!”urlò. “Trovami una scusa migliore!”

“Mio caro signore”, tentò Gloucester, preso in mezzo all’ira del suo vecchio padrone e alla fierezza dei nuovi, “sai quanto il duca sia irruento”.

“Vendetta! Maledetti! Morte e sventura!” ruggì il re. “Irruenza! Da quando si tratta di una qualità?” esclamò, mandando di nuovo il conte a chiamare il duca e la duchessa, i quali, infine, arrivarono, e allora il messaggero fu liberato; ma il re a malapena si accorse della sua partenza, perché finalmente Regana, la sua amata figlia, lo aveva raggiunto; e quale altro padre aveva una figlia preziosa quanto Regana? Il suo cuore era talmente colmo di amore per lei, che il re iniziò a confidarle, in un tumulto di parole, più simile a un bambino ferito che si rivolge alla madre amata, tutte le ingiustizie che aveva subito dalla sorella maggiore.

Regana però lo interruppe. “Non credo che mia sorella abbia mancato nei vostri confronti” disse questa freddamente.

Il re sussultò, ondeggiando leggermente, come portato dal vento; quindi si fermò a fissarla. Aveva sentito bene? Era proprio lei, Regana, la sua tenera, affettuosa Regana, che aveva parlato di fronte a lui, l’insensibile duchessa, insieme al suo duro coniuge? No, non poteva essere lei, non con quella voce crudele che lo dichiarava vecchio e con un piede nella tomba, ormai incapace di prendersi cura fin di se stesso; la stessa che affermava che Gonerilla era stata giusta nel rimetterlo al suo posto, e che egli avrebbe dovuto tornare indietro da lei in ginocchio, chiedendo umilmente perdono! Non poteva essere Regana, e lui non l’avrebbe maledetta come aveva fatto con Gonerilla. Doveva trattarsi di un mostro che ne aveva preso le sembianze, perché sua figlia non avrebbe mai rinnegato l’amore dichiarato al padre, tantomeno si sarebbe rivelata tanto ingrata. Non era come Gonerilla.

“Oh dei del cielo, se amate chi è ormai vecchio come me, scendete sulla terra e difendetemi!” urlò il re con un brivido di angoscia.

Re Lear, da Le Storie di William Shakespeare di Leon Garfield, Parte 4 – traduzione di Germana Maciocci

Il castello del conte di Gloucester si ergeva imponente contro il cielo tetro, simile a un pensiero oscuro in una mente malvagia. Fuori dalle porte, spesse e blindate, sedeva un uomo, dall’apparenza tranquilla e paziente, con le gambe imprigionate da robusti ceppi di legno. Era lì da tutto il giorno ormai, il messaggero del re, messo alla gogna come un comune vagabondo.

Il duca e la duchessa di Cornovaglia avevano dato ordine di imprigionarlo, nonostante le proteste del duca di Gloucester, che pensava fosse una mancanza di rispetto nei confronti del re, trattare in modo così irrispettoso il suo messaggero. Ma il messaggero se l’era cercata, scontrandosi con un tale Osvaldo, maggiordomo della duchessa di Albany, che sopraggiungeva con un messaggio per Regana. Sarebbe stato d’insulto per Gonerilla, che considerava Osvaldo ancora più del suo stesso consorte, il mite duca, se l’aggressore del suo fedele servo non fosse stato punito con severità. Quindi il messaggero del re era stato messo ai ceppi; e lì sedeva, con nient’altro che i suoi pensieri ad accompagnarlo e confortarlo.

Egli era vestito in modo grossolano, con la barba incolta, il linguaggio rude. Si trovava da poco al servizio del re; eppure aveva visto come Gonerilla aveva trattato suo padre, e si era indignato a tal modo, come se avesse servito il vecchio re da tutta la vita. Sospirava e sorrideva mestamente, poiché in realtà aveva servito e amato re Lear per tutta la vita. Il re non lo aveva riconosciuto, a causa del suo vestito umile e della barba irsuta. Il suo travestimento metteva in mostra, invece di nascondere, la sua natura schietta e sincera. Egli era infatti il conte di Kent, il quale, bandito dal re, era ritornato per vegliare sul suo amato sovrano.

Kent aveva inviato lettere a Cordelia, in Francia, informandola riguardo la situazione del regno, che peggiorava di momento in momento, del conflitto in corso tra i duchi di Albany e Cornovaglia, e della sofferenza di suo padre. Il conte non era felice di vedere  avverarsi i suoi tristi presagi. Il suo unico conforto, mentre sedeva con le membra e il cuore dolenti, era aver ricevuto la notizia che dalla Francia un’armata era appena giunta a Dover, accompagnata dalla stessa Cordelia. Se ne stava quindi lì imprigionato, fischiettando per tenere alto l’umore, pensando che presto la pena di re Lear avrebbe trovato il giusto sollievo.

Re Lear, da Le Storie di William Shakespeare di Leon Garfield, Parte 3 – traduzione di Germana Maciocci

Re Lear cavalcava nella notte. Alto, su di un enorme cavallo scuro, il vetusto re, in mantello e cappuccio di pelliccia e velluto pesante, andava attraverso lande e foreste, villaggi stravolti e borghi spauriti, con cento cavalieri al seguito. Dietro di lui, appeso alla sua schiena come una gobba molle, una figura minuta e singolare, vestito di mille colori e con il volto bianco come la neve. Era il suo buffone, che il re amava tanto, e che nonostante si prendesse gioco della sua pazzia, facendo versi alla sua follia, al momento gli era più caro delle sue stesse figlie. Gonerilla gli aveva mostrato il suo disprezzo; ma il suo odio non era che una candela, rispetto all’incendio di rabbia che si era sprigionato nel cuore di Lear nei confronti della sua primogenita.

Ella lo aveva infatti disprezzato, svilito, aveva dato ordine ai suoi servi di trattarlo in malo modo! Gli aveva perfino ordinato di dimezzare gli uomini del suo seguito! Per lei non era più che un vecchio noioso e rumoroso, e lo aveva cacciato via con disdegno. In meno di due settimane, l’ardente amore che aveva professato per lui di fronte al trono si era ridotto in fredde ceneri. Il re l’aveva maledetta;  perché nessun padre ebbe mai una figlia più crudele di Gonerilla!

Ma c’era sempre Regana, la sua amata Regana, che aveva giurato che il suo affetto per lui era ancora più profondo di quello della sorella maggiore. Era da Regana che stava cavalcando così di gran lena, ma non verso il suo palazzo, perché sia lei sia il duca di Cornovaglia erano al momento ospiti del conte di Gloucester. Fatto piuttosto strano, poiché il re aveva mandato un messaggero per avvertirla del suo arrivo; eppure lei era partita lo stesso. Come ogni padre al suo posto, egli cercava di trovare delle giuste scuse per il comportamento di Regana… ma come mai il messaggero, che l’aveva seguita nel suo viaggio, non era ancora tornato?

Re Lear, da Le Storie di William Shakespeare di Leon Garfield, Parte 2 – traduzione di Germana Maciocci

Più tardi vi fu un eclissi sia di luna che di sole, e mentre tutto era avvolto nella tenebra più assoluta, mendicanti e folli vagabondi si ritiravano pieni di terrore sotto cespugli e in cunicoli sotterranei. Quindi disordini e disgrazie si diffusero ovunque, palazzo reale incluso, dove il re impazzito aveva bandito Kent e rinnegato la buona Cordelia. Sicuramente la fine del mondo era vicina! Re contro suddito, padre contro figlia…. e ora, figlio contro padre! Il conte di Glucester, un altro anziano padre del regno orfano di Lear, ritornando presso il suo castello, venne a sapere che Edgar, suo figlio maggiore, complottava per ucciderlo.  A informarlo fu Edmund, il figlio più giovane, il quale gli mostrò addirittura una lettera, scritta con la calligrafia di Edgar, nella quale, chiaro come il giorno, veniva palesato il sanguinoso piano di Edgar, che prevedeva il compimento di un gesto, al contrario, nero come la notte!

“Oh malvagia canaglia!” gemeva il conte, torcendosi le mani in preda alla sua pena. “Snaturata, detestabile, crudele canaglia!”

Quindi Edmund, intelligente e di bell’aspetto, dopo aver posato gentilmente la mano sul braccio del padre per confortarlo, andò in cerca di Edgar, per avvisarlo, da fratello a fratello, che il loro genitore, per una qualche causa ignota, era adirato contro di lui, in maniera così violenta da mettere in pericolo la vita di Edgar, e che, fino al momento in cui Edmund non fosse riuscito a ricondurre il conte alla ragione, era meglio per quest’ultimo se si fosse tenuto lontano dal castello.

Edgar, che era di cuore nobile quanto Cordelia, credette alle parole del fratello e, tremendamente scosso e preoccupato, fuggì come un ladro dalla casa di suo padre.

Guardandolo andar via, Edmund sorrise. Egli disprezzava e invidiava suo fratello, il quale in quanto legittimo avrebbe ereditato tutto. Egli invece era il mero frutto della lussuria di suo padre, e non avrebbe ottenuto nulla se non avesse provveduto da solo a soddisfare i propri scopi. “Se non per nascita, avrò la mia eredità grazie alla mia astuzia”, mormorò Edmund. Era stato infatti lui a scrivere la lettera e a inventare il complotto.

Re Lear, da Le Storie di William Shakespeare di Leon Garfield, Parte 1 – traduzione di Germana Maciocci

Tanto, tanto tempo fa, prima che fosse fondata la prima Chiesa, regnava in Britannia un re, il cui nome era Lear. Egli aveva tre figlie; e quando fu ormai vecchio e stanco di portare il peso del regno sulle sue spalle, desiderò godere unicamente dei privilegi legati al fatto di essere re, e decise di dividere il suo regno tra le sue amate figlie, e di tenere per se solo la corona. Le chiamò quindi a palazzo, e qui, nella imponente camera di consiglio, di fronte a tutti i duchi e ai signori e ai cavalieri che potevano entrare in quella sala, chiese alle sue figlie quanto grande fosse l’amore che esse provavano per lui; a tale misura avrebbe corrisposto infatti il loro compenso.

La più grande parlò per prima: Gonerilla, duchessa di Albany, una gran signora la quale bellezza marmorea si disciolse in tenerezza, mentre ella raccontava a tutti quanto amasse il suo caro padre. Disse infatti di amarlo più di ogni altra cosa nell’Universo.

“Egli mi è più caro”, dichiarò ella, “della mia stessa vista, dello spazio, della libertà!” E subito dopo accorse, con un gran frusciar di ampie gonne, a salire la scala che portava verso il trono, come una nube scura che si solleva nell’aria, per baciare la mano di suo padre.

Il vecchio re,  nel suo abito dorato simile al Tempo fissato e rigido, abbassò lo sguardo verso la mano che la figlia aveva baciato. Nessun altro padre era dotato di una figlia così affettuosa come Gonerilla! Pieno di orgoglio fece passare lo sguardo tra la moltitudine di teste coronate che lo circondavano, e annuivano ripetutamente in profonda ammirazione, come un mare mosso al tramonto da una lieve brezza. Tutti i volti erano illuminati dalla gioia… tutti tranne uno! Il conte di Kent era infatti accigliato; e il suo volto serio risaltava come una macchia in quel tessuto di sorrisi.

Subito dopo, fu il turno di Regana, duchessa di Cornovaglia, seconda per nascita ma non per bellezza. Le sue guance sembravano rose e il suo meraviglioso abito era impreziosito da perle. Quanto amava dunque ella il re, suo padre?

“Sono fatta dello stesso metallo di mia sorella”, dichiarò decisa. “Ella ha infatti espresso il mio stesso amore, anche se troppo brevemente…” Quindi anche Regana salì verso il trono e baciò il padre, non sulla mano ma sulla guancia rugosa.

Re Lear annuì, e si accarezzò la guancia, come per paura che il bacio appena ricevuto potesse volare via; e la rete di rughe intorno ai suoi occhi si illuminò, quasi si fosse sparsa di rugiada. Quale altro padre infatti aveva una figlia tanto preziosa quanto Regana! Ancora una volta la marea dorata di nobili si mosse per l’ammirazione; mentre il conte di Kent appariva ancora più rabbuiato. Ma alla fine, anche sul suo volto apparve un sorriso. Ora avrebbe dovuto infatti parlare Cordelia, la più giovane delle figlie del re.

In un semplice abito bianco, con l’unico ornamento dei suoi capelli dorati, e nessun gioiello tranne i suoi limpidi occhi, si pose davanti al padre come le sorelle prima di lei avevano fatto, per offrirgli il suo amore in cambio di un terzo del suo regno. Il suo volto era serio e compunto; e ancora la fanciulla non parlava.

“Cosa puoi dire in più, per ricevere da me una terza parte ancora più ricca rispetto a quella destinata alle tue sorelle?” la spinse a parlare con affetto il padre, perché Cordelia era la figlia a lui più cara; e nessun altro padre possedeva una figlia più sincera di Cordelia! “Parla quindi.”

” Non ho nulla da dire, mio signore”, disse ella.

“Nulla?”

“Nulla.”

Quindi rimasero lì a fissarsi, il padre reso folle dalla rabbia, la figlia, impassibile, ma con il cuore in tumulto. Sapeva che tutti la stavano osservando, e sentiva su di se gli sguardi pungenti e inquisitori delle sorelle. Sapeva quali erano state le aspettative nei suoi confronti, ma ella non si sarebbe sottomessa a tale prova, non le era proprio possibile. Amava suo padre quanto una figlia doveva amare il proprio genitore, sinceramente e senza secondi fini. Non poteva giurare, come avevano fatto le sue sorelle, che lo adorava al pari di un dio.

Re Lear si alzò in piedi, e la marea dorata si aprì mormorando di fronte a lui. I sorrisi erano ormai tirati; le sorelle più grandi distolsero lo sguardo, mentre la più giovane fissava dritto davanti a se. Il re si posò una mano sulla fronte, in un punto dove sentiva bruciare sempre più forte, come se il cervello stesse per andargli a fuoco. Era il punto dove Cordelia avrebbe potuto baciarlo. Vide i suoi cortigiani, ormai a disagio, allontanarsi da lui spaventati, come un gregge che fugga dalla minaccia di un temporale.

Uno però rimase fermo al suo posto, come a non temere affatto l’ira del re: il conte di Kent. Anche il suo volto appariva però  preoccupato; sapeva infatti che, qualora la tempesta fosse scoppiata, ne avrebbero fatto le spese tutti, padre, figlia, re e regno assieme. Quando un semplice essere umano agisce in preda alla rabbia, è solo la sua casa a tremare; l’ira di un re è in grado di fare a pezzi il mondo intero.

Gli occhi del re si accesero, e la sua voce si fece di tuono. La tempesta era iniziata e il regno iniziò a tremare sotto la sua violenza. Il conte di Kent fu cacciato via, mandato lontano dal regno, bandito all’istante, per aver osato mettersi tra il re e l’oggetto della sua ira. La stessa Cordelia, che non sapeva più se essere sveglia o preda del più terribile degli incubi, vacillò sotto ai fulmini che le venivano lanciati dal trono. La sua eredità, la sua dote, perfino l’amore di suo padre le furono sottratti all’improvviso, lasciandola tremante e priva di qualsiasi cosa appartenesse di diritto a una figlia di re. Quindi fu cacciata dal regno. Due uomini le avevano fatto la corte: il duca di Borgogna e il re di Francia. Con disprezzo il re la offrì a questi due pretendenti, insieme a quel nulla che il padre credeva lei gli avesse riservato. Borgogna scrollò le spalle e si allontanò; mentre il re di Francia vedeva le cose in altro modo. La prese in sposa con piacere, per lui il suo cuore sincero e la sua anima pura costituivano una dote già più che sufficiente.

Respirando a fondo, il re si girò verso Gonerilla e Regana, le figlie che lui reputava rispettose, e divise l’eredità di Cordelia tra le due. Così era stato deciso. Egli aveva rinunciato al suo potere. Non tenne nulla per lui solo, tranne la corona e un seguito di soli cento uomini. Lasciò perfino il suo palazzo; perché con due così care figliole, cosa ne avrebbe fatto un padre di una casa tutta per lui? A partire da quel momento, e fino al termine della sua vita, avrebbe infatti diviso il tempo che gli rimaneva in modo equo, a casa delle due due che aveva così generosamente compensate.

“Amate degnamente nostro padre”, raccomandò Cordelia, mentre si allontanava dalle sue sorelle.

“Non sei tu a doverci dire qual è il nostro dovere”, fu la loro fredda risposta.